L’alchimia, la luce e la fama sono i tre grandi filoni che
racchiudono una sola e complessa tensione estetica e concettuale: quella che dal rapimento visivo-psicologico della macchia porta all’immedesimazione con il pubblico e con il sistema della comunicazione
di massa. Osservando le diverse conformazioni della macchia, si colgono le tensioni e le direttrici che hanno spinto il colore al limite delle possibilità spaziali. La macchia è percorribile e decifrabile come una mappa, possiede una specifica autonomia segnica, determinata dal caso o da ciò che noi ancora possiamo soltanto conoscere e identificare come tale. Dalla periferia del quadro la nostra attenzione è inevitabilmente attratta verso il centro, dove lo spazio e il tempo sembrano precipitare. È inevitabile proiettare la nostra mente verso le immagini dei buchi neri, dello spazio insondabile (e quindi verso lo spazialismo). Quel che si presenta al nostro sguardo è solo l’effetto finale di un processo dinamico e complesso, così come l’universo che conosciamo oggi (pur se in costante espansione), è il riflesso di eventi consumati in precedenza. Il tutto è cristallizzato in un frame, un fermo immagine che la nostra cognizione digitale ci porta a visualizzare indietro e in avanti nel tempo, da diversi punti di vista, come in uno slow-motion della performance. Nonostante tali suggestioni, si tratta pur sempre di un quadro, connotato dalla sua canonica fermezza.
Eppure, al suo interno, a volte balugina un dettaglio tridimensionale, un frammento solido che sembra denunciare il principio organico e processuale che ha dato origine all’immagine. Si tratta di scaglie del
vetro-contenitore che, come schegge di un guscio, appaiono agglomerate all’impasto cromatico: tracce dell’utero-uovo che, rompendosi, ha fatto esplodere la vita.